Da un articolo di Riccardo Cesco, coordinatore del CDD Il Fiore di Cernusco sul Naviglio, che potete leggere per intero su Lombardia sociale, pubblicato il 19 dicembre 2022: è possibile far tesoro dell’esperienza concreta sperimentata durante la pandemia e significare quanto è accaduto imprimendo un’innovazione di cui non tanto i servizi hanno bisogno, quanto le persone che li frequentano?
Dal 1994 la Libera Compagnia di Arti & Mestieri Sociali lavora nell’Area della Provincia sud/sud est di Milano, realizzando interventi educativi rivolti a persone che, a diverso titolo, si trovano in condizioni di bisogno e fragilità.
In questi anni abbiamo accompagnato l’evoluzione del sistema socioassistenziale e sanitario in Lombardia assistendo alla nascita dei diversi servizi rivolti alle persone con disabilità, dai servizi di formazione all’autonomia (SFA) ai centri socio educativi (CSE) ai più recenti centri diurni (CDD). La gestione di servizi come i CDD ci ha posto di fronte a vincoli, fatiche e contraddizioni che siamo anche stati lieti di dover affrontare convinti che le pratiche possano offrire spunti di trasformazione che possano aprire al superamento dei vincoli stessi.
I CDD sono destinati alla frequenza di persone con disabilità complesse dove possono beneficiare di interventi sanitari, riabilitativi assistenziali ed educativi. Sono stati istituiti e normati dal legislatore regionale inquadrandoli all’interno di rigorosi vincoli sanitari. Vengono definiti servizi sociosanitari con l’intenzione di rappresentare un punto di incontro tra la necessità di fornire supporti sanitari e il diritto all’inclusione e alla socializzazione. Il prodotto, però, non sempre è stato all’altezza di quanto prospettato, soprattutto quando i vincoli sanitari o, meglio dire, la loro rigorosa interpretazione, rischiano di deprimere o diventare essi stessi una barriera alla promozione sociale delle persone.
La pandemia, sembra strano dirlo, ma è così, ha avuto il merito di modificare le logiche prevalenti in questi servizi sciogliendo le barriere con le famiglie, sfatando numerosi tabù sulle modalità di erogazione e gli standard degli interventi, aggiornando gli staff su nuovi strumenti e tecnologie, costringendo ad un grande sforzo di flessibilità, imponendo un cambiamento sui pensieri e sui significati del lavoro sociale.
Crediamo che ora il nodo stia nel partire dal ridefinire lo scopo stesso di questi servizi. Non solo spazi da frequentare e dove trovare trattamenti specifici ma, piuttosto, laboratori di progettazione e di messa in opera di esperienze di vita. Centri che abbiano lo scopo di modificare e rendere accessibili gli ambienti di vita delle persone e promuovano al meglio processi di inclusione sociale. Per paradosso, infatti, “il miglior servizio è quello vuoto perché ha svolto bene il suo lavoro”.
Si può leggere l’intero articolo qui