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Adolescenti alla ricerca del nome proprio

Nel nr. 358 di Animazione Sociale Andrea Lorenzo Marchesi , pedagogista e presidente di Arti & Mestieri Sociali, offre una interessante lettura in chiave pedagogica della sofferenza che sta investendo le adolescenze di oggi.

La riflessione nasce a partire da un confronto con educatori della cooperativa che lavorano in servizi per i giovani, chiedendo loro di fare un elenco dei bisogni formativi riscontrati nel lavoro quotidiano. Il gruppo si è trovato di fronte a un catalogo di disturbi, una collezione di sintomi: ritiro sociale, fobia scolare, self cutting, disturbi alimentari, problematiche connesse alla gestione della rabbia con riferimento alle risse di gruppo, disturbi d’ansia e crisi di panico, dipendenze da alcool, problematiche connesse al disorientamento sessuale, depressione. Come dire, l’adolescenza come repertorio di disturbi.

Se in un recente passato si sarebbe iniziato un paziente lavoro decostruttivo di queste richieste, ad esempio chiedendo quante/i e quali ragazze/i conoscono che presentano questo tipo di sintomi e da chi e come sono venuti a conoscenza di eventuali diagnosi, sollecitando un esercizio critico per svelare lo scarto tra i dati di realtà e la percezione degli operatori, questa volta qualcosa è cambiato: è stato come ritrovarsi a chiedersi se, a quel lungo elenco di sintomi, mancasse qualcosa.
È come se i segni di una sofferenza diffusa che incontriamo ogniqualvolta ci avviciniamo a un ragazzo o a una ragazza avessero occupato definitivamente tutto il campo, rendendo superflua qualsiasi altra dimensione, chiedendoci di imparare a identificare, distinguere, classificare adeguatamente, rilevare in modo scrupoloso ciò che il sintomo ci sta dicendo, le sue ragioni di fondo.
La pandemia forse ha portato a compimento definitivo un processo in atto da tempo: l’iscrizione dell’adolescenza in uno schema di fragilità, in una matrice psicopatologica in grado di formattare tutta la biodiversità adolescenziale in un unico frame cognitivo nel quale ogni adolescente viene rappresentato come l’espressione di un conflitto esclusivamente interiore.

La novità non è certo il ricorso alla problematicità, dato che la categoria di adolescenza emerge storicamente come età della crisi, come perdita dell’innocenza infantile e quindi come turbolenza, inquietudine, sregolatezza, sempre in rapporto al «mito occidentale della  compiutezza adulta» (Barone, 2009) e sempre in relazione con l’anormalità.
Siamo davvero di fronte al definitivo passaggio del testimone tra la figura dell’adolescente ribelle e quella dell’adolescente fragile, che comporta un decisivo mutamento dell’esperienza del conflitto che diventa intimo, privato, individuale, interiore, risuonando nella società come domanda di cura, protezione, trattamento. È questo l’immaginario con il quale dobbiamo fare i conti.
Nelle rare forme di manifestazione collettiva di questi anni, nel prendere voce pubblicamente, nelle occupazioni dei licei, come nelle manifestazioni studentesche, sono comparsi slogan e cartelli che rivendicano come un vero e proprio diritto una condizione che associa l’esperienza di adolescenza al malessere.
Si tratta allora di prendere sul serio un discorso che proviene direttamente dall’esperienza di chi, prendendo voce, sembra non solo confermare ciò che l’immaginario sociale indica, ma chiede di agire in modo coerente e conseguente.

E’ necessario ripartire da qui, per capire come il lavoro educativo possa accogliere queste richieste, legittimarle, farle proprie.
Presentarsi puntuali, ancora una volta, all’appuntamento con i giovani di questo mondo è il compito educativo più importante che viene consegnato oggi a chi si trova implicato a interagire con l’adolescente.

Ne parla approfonditamente Andrea Marchesi nell’articolo che potete leggere qui:

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