Sono passati vent’anni dal convegno “Fuori dal Centro”, una delle ultime uscite pubbliche di Riccardo Massa.
“Fuori dal Centro” è stato un’occasione intensa per la cooperativa e per tutti quelli che, alla fine degli anni novanta, lavoravano negli spazi di aggregazione giovanile. Un’occasione per ripensare il nostro agire educativo nelle periferie.
Dopo vent’anni quelle parole sono ancora attuali e continuano ad interrogarci.
Qui sotto potete leggere un ricordo della giornata scritto da Andrea Marchesi e l’articolo pubblicato su Animazione Sociale, trascrizione dell’intervento di Riccardo Massa.
Continuare a pensare, fuori dal centro
Paullo (Mi) 26 e 27 novembre 1999, Fuori dal Centro. Il CAG come dispositivo di autopromozione.
Sono passati vent’anni esatti dal nostro primo convegno: due giornate intense di confronto con tantissimi operatori, tecnici, formatori, che hanno riempito il salone del Centro Giovani di Paullo.
Si è trattato di un punto di svolta per tante ragioni. La fine dell’inizio della storia di Arti e Mestieri Sociali, al termine degli anni ’90, la fase aurorale della cooperazione sociale, dei servizi orientati a promuovere cittadinanza attiva, a praticare promozione innescando partecipazione e protagonismo.
Ma anche l’inizio della fine di un’altra storia.
“Fuori dal centro” era innanzitutto una constatazione geografica: eravamo decentrati territorialmente, ai confini dell’area metropolitana milanese, dove i Centri di Aggregazione Giovanile erano fioriti negli anni ’90 e dove noi, come Libera Compagnia, avevamo trasferito le energie e le competenze provenienti da anni di militanza e attivismo nell’ambito dell’apertura di spazi sociali autogestiti, incontrando l’animazione sociale e iniziando ad accostarci a qualche base pedagogica per i nostri progetti. Si lavorava con ragazzi che crescevano “fuori dal centro”, in provincia e in periferia, dove le luci della ribalta arrivavano sbiadite e si raccoglieva la fame di relazioni, avventure, incontri e espressività che il setting esperienziale dei CAG provava ad intercettare e ingaggiare.
Ma “Fuori dal centro” era anche un invito, un suggerimento metodologico. Da una parte l’invito a non chiudersi tra le quattro mura colorate e protettive del centro, ma uscire, sul territorio, per animare i paesi e le comunità locali; dall’altra “fuori dal centro” era come anticipare un approdo, un movimento di congedo ed evocare l’apertura di possibilità, la necessità del distacco per inseguire quella mitica dilatazione degli orizzonti di cui avevamo letto sui libri di Bertolini. Per i ragazzi, ma forse anche per noi operatori, il Centro era un luogo da attraversare, da vivere intensamente per poi dedicarsi alla ricerca del proprio appuntamento con il mondo.
Con orgoglio e con un po’ di sfrontatezza avevamo invitato tutti a Paullo: istituzioni locali, comunali, provinciali e regionali, agenzie educative e sanitarie, operatori degli altri centri e poi il mondo dell’Università e della formazione degli educatori.
Molti di noi stavano ancora studiando o avevano da poco concluso l’Università, frequentando la scuola regionale per operatori sociali, oppure i corsi di laurea di Lettere e Filosofia, ed era importante poterci confrontare con docenti e ricercatori sul senso del nostro lavoro con gli adolescenti.
Io mi ero preso l’onere di invitare anche “Il prof”. Qualcuno mi aveva detto che di solito accettava l’invito degli ex allievi a seminari e convegni, ma io sapevo che il momento era complicato e che non sarebbe stato semplice fargli lasciare per un’intera mattinata l’Università, la nuova facoltà di cui era preside. Ormai la transizione dall’Università Statale alla Bicocca era definitivamente compiuta; l’istituto di Pedagogia nel cortile di Via Festa del Perdono era alle spalle e c’era la nuova facoltà di Scienze della Formazione da portare avanti. Sapevo che era molto impegnato, perché stavo frequentando il primo Master in “Competenze cliniche nelle professioni formative” diretto e condotto proprio da Riccardo Massa e Angelo Franza e avevo avuto occasione di percepire tutto il carico di questa nuova impresa formativa.
Ricordo una mattina, forse di fine settembre, in quella Bicocca che ancora non si era del tutto apprestata a cambiare faccia, non ancora pronta ad accogliere la nuova popolazione universitaria, con i pochi bar aperti che ancora conservavano la memoria operaia del quartiere, ricordo di avere incontrato il prof per invitarlo a Paullo, al nostro convegno sui CAG. Mi aveva guardato esprimendo una dose non mascherata di scetticismo: “I Centri Giovani ? Ma non sono in crisi ? Mi ricordo, negli anni ’80, quanto ci abbiamo lavorato, ma poi…”. Avevo allora provato a sintetizzare la nostra proposta, la vivacità della provincia, prendendo le distanze dall’esperienza metropolitana a cui faceva riferimento, ma soprattutto gli avevo detto che non avevamo bisogno di interventi consolatori, ma di essere sollecitati e provocati, senza sconti. Forse era giusta l’imbeccata della forza dell’invito di un ex allievo, forse lo avevo convinto e comunque alla fine si era segnato la data e l’indirizzo.
Così, tra la nebbia di un venerdì di fine novembre, a bordo di una panda bianca, con un leggero ritardo che ci aveva consentito di riempire il salone al primo piano del centro, ricordo l’arrivo del Prof, la stretta di mano calorosa e la domanda di rito “Poi mi dite di cosa devo parlare …”
Lo avevo rassicurato dicendo che gli avrei fatto qualche domanda, trovando il modo di passargli la cartellina del convegno con una traccia di intervista, mentre ormai la sala cominciava a richiedere l’inizio dei lavori, inevitabilmente slittato.
Se non sbaglio una prima domanda sono anche riuscito a porla, qualcosa che aveva a che fare con il tramonto dell’educazione e con la nostra ostinata ricerca di ritrovare una funzione educativa nel setting di un CAG, mentre poi era iniziata una comunicazione torrentizia, inarrestabile, che, a partire da un’implacabile analisi della crisi degli ambienti educativi ci avrebbe consegnato alcune piste per progettare e allestire esperienze sensate con gli adolescenti.
Vent’anni dopo quel testo ci parla e ci interroga ancora e per questo motivo ci piace condividerlo qui.
Quella, forse, è stata una delle ultime uscite pubbliche del Prof, fuori da un’aula universitaria e quel testo è carico di tanti significati e di implicazioni affettive per chi lo ha conosciuto e lo ha avuto come maestro. E’ un testo che ci ha lasciato una strana forma di eredità, quell’eredità pedagogica che non si trasmette per consegna, ma per contagio.
E’ la promessa di preservare gli spazi e i tempi per continuare a pensare ed elaborare criticamente le nostre pratiche, di farci domande, sospendendo l’azione per riguardare a ciò che si è fatto, a come lo si è fatto, alla ricerca di qualcosa che stiamo dando per scontato, provando a resistere alla tentazione di chi dice che si fa così perché si è sempre fatto così e perché non si può fare altrimenti.
Continuare a pensare, come scrive M.Foucault nella prefazione della Nascita della clinica, testo fondamentale per questa storia:
“Ciò che conta nei pensieri degli uomini non è tanto ciò che hanno pensato, ma è quel non-pensato che d’acchito li sistematizza, rendendoli per il resto del tempo, indefinitamente accessibili al linguaggio e aperti al compito di pensarli ancora.”
Tre piste per lavorare entro la crisi educativa (Riccardo Massa)