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Crisi di senso oltre che di compenso

Un articolo di Andrea Marchesi, pedagogista e presidente di Arti & Mestieri Sociali, pubblicato nel n.2 di quest’anno di Pedagogika.

Le basse retribuzioni, la richiesta di estrema flessibilità e una crescita ipertrofica delle prestazioni, stanno mandando in burn-out non solo tanti singoli educatori, ma l’intera professione.
Cinque anni fa il parlamento italiano approvava l’ultima legge di stabilità della XVII legislatura, consegnando un regalo inaspettato al mondo dell’educazione. Nella Legge 205/217 venivano inseriti alcuni articoli che finalmente, dopo decenni di attesa, sancivano il formale riconoscimento della figura di pedagogista e di educatore socio-pedagogico. Nella denominazione “educatore socio-pedagogico” si possono
rintracciare le due principali radici dalle quali si è storicamente diffusa la pratica educativa professionale. Da una parte l’educatore come operatore sociale impegnato ad affrontare concretamente sia problemi individuali sia questioni sociali, promuovendo e tutelando i diritti delle persone più fragili, dall’infanzia, all’adolescenza, alle persone con disabilità, o con sofferenze mentali. Dall’altra parte, l’educatore come
operatore pedagogico, ovvero la forma peculiare di qualificazione scientifica che ha assunto una professione che si esprime attraverso la capacità di progettare, valutare, allestire e condurre esperienze educative sostenute da un sapere di tipo pedagogico.

Sono trascorsi solo cinque anni dal riconoscimento dell’educatore socio-pedagogico, ma sembra passata un’era geologica: il turn over che mette in ginocchio i servizi, la fuga degli educatori verso altri impieghi, la difficoltà ormai cronica di reclutamento di figure qualificate, tutto ciò ha portato le istituzioni a correre ai ripari, con deroghe normative a livello regionale che di fatto sospendono gli effetti della L.205/2017.

Che cosa è successo?

Andrea Marchesi prova a darne una lettura nell’articolo che potete leggere per intero qui:

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