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Classi virtuali e inclusione: il ruolo dimenticato degli educatori

Come ogni mattina ormai da qualche settimana mi sveglio e inizio a lavorare alla mia postazione PC.

Quasi tutta la mia attività oggi, per fortuna, può passare attraverso questo strumento, anche perché insegnamento a parte, il resto del lavoro ormai è prevalentemente lavoro a distanza.

Da qualche giorno anche la scuola si è aggiunta agli altri ambiti di lavoro online, e mio malgrado, mi trovo a passare intere giornate al PC.

La scuola arriva a questo appuntamento non per scelta, e, a parte scuole che già avevano una consolidata storia di lavoro attraverso le TIC (Tecnologie per Informazione e Comunicazione), ci arriva con i docenti in ordine sparso, con tanta buona volontà e poca competenza.

Una scuola interamente e sempre a distanza sarebbe malsana, e infatti le TIC completano, articolano e arricchiscono le metodologie, ma oggi, per un periodo non lungo, ma nemmeno troppo breve, costituiscono l’unica possibilità di mantenere la scuola aperta.

Ed è importante affermare con forza che la scuola è aperta, e che, con molti limiti e un po’ di fantasia, questo perno fondamentale di ogni democrazia riesce ancora a svolgere la sua fondamentale funzione.

A questo proposito vorrei tentare tre riflessioni, meglio tre spunti di riflessione, che come persona che lavora e vive la scuola tutti i giorni, mi sembra importante comunicare.

Il primo spunto direi che è quasi tecnico-giuridico.

Come sapete sono sospese le lezioni in presenza. La scuola non è chiusa.

Ogni mattina i docenti svolgono la loro funzione o postando lezioni registrate, o lavorando in streaming tenendo delle lezioni in presenza.

Si è attivata una scuola a distanza, che non è solo didattica, e non può essere solo didattica, così come del resto l’intero complesso di attività della scuola non è solo didattica.

Trovo senza senso e giuridicamente scorretto che in alcuni territori il personale educativo sia stato messo a riposo dai comuni come se la scuola fosse chiusa.

La scuola è aperta, e paradossalmente la poca competenza digitale di molti docenti comporta il fatto che si lavora più di prima, nel tentativo di recuperare un gap storico sulla capacità di attivare forme di lezione a distanza che per questo difficile periodo sostituiscono la lezione in presenza.

Il rischio che intravedo è che gli enti locali nell’emergenza di questa situazione, sottovalutino il fatto che, lo smarrimento prodotto dall’interruzione delle relazioni interpersonali di classi intere e in particolare degli alunni per i quali gli educatori sono chiamati a lavorare nella scuola, richieda in questo momento delicato la profusione di maggiori risorse.

Penso che in assenza di una chiusura della scuola, e in presenza di una sospensione delle lezioni in presenza, con attivazione di classi virtuali gli educatori non possano essere lasciati senza lavoro, e la loro prioritaria azione di mediazione relazionale, nonché di supporto agli apprendimenti, debba svolgersi con strumenti diversi e temporanei in sostituzione di quanto normalmente avviene.

È un diritto delle persone con disabilità ed è un diritto dei lavoratori che non hanno perso il lavoro, ma che sono chiamati a svolgerlo temporaneamente in altro modo.

Il secondo spunto è di contenuto.

Ogni docente che vive la scuola sa che nelle classi in cui c’è un educatore si riesce a lavorare meglio. Non solo per quanto riguarda gli alunni con disabilità, ma soprattutto per quanto riguarda il clima complessivo della classe e il supporto a tutti quegli alunni con bisogni educativi, che mi fa un po’ specie chiamare “speciali”, dal momento che riguardano mediamente il 70% degli alunni di una classe.

L’educatore in classe è un perno essenziale della modulazione delle dinamiche relazionali e dell’inclusione dei bisogni di tutti.

Le classi sono attive oggi, dappertutto, sono classi virtuali, è vero, ma questo non semplifica, aumenta i rischi che differenze sociali, economiche, culturali, e, perché no, anche cognitive, possano abbattersi sugli alunni meno supportati marginalizzandoli.

Una marginalizzazione virtuale e digitale che rischia clamorosamente di aggiungersi alla marginalizzazione sociale reale spesso vissuta dagli alunni in difficoltà, che, nella scuola ricordiamolo, sono mediamente il 20% degli alunni di una classe.

Il terzo spunto è relativo ai nuovi contenuti di un lavoro educativo in classi virtuali.

Mi pongo una domanda semplice: come pensa la scuola dell’inclusione di sostenere la didattica a distanza con alunni che hanno deficit cognitivi, spesso anche “importanti” come direbbero i medici, ma che spessissimo hanno un’intelligenza emotiva spiccata che compensa il gap apprenditivo, e consente loro di relazionarsi con i compagni in una dimensione di possibilità, di futuro, di comunità?

Come è possibile pensare che i genitori da soli possano aiutare i loro figli nell’utilizzo di queste risorse poco considerate e poco presenti nella didattica online?

Occorre tempo, studio, fantasia, come quelli che ogni docente sta impiegando oggi per trasformare il proprio lavoro in lavoro totalmente a distanza. Ed è difficile in questo momento per i docenti trattenere anche le variabili emotive dei bisogni di una classe, perché la difficoltà di produrre materiali e già alta.

Occorrono docenti di sostegno ed educatori che insieme provino a capire quali strumenti utilizzare, come si possono connettere gli alunni in difficoltà, come ingaggiare o trasformare le lezioni dei colleghi in lezioni inclusive, emotivamente intense, vive, nonostante la distanza.

E ancora mi chiedo, ma se i ragazzi che prima chattavano in gruppo su WhatsApp oggi chattano anche su Weschool, Classroom, Edmodo, ecc.  in chat private, uno a uno, come è possibile modulare questa trama di relazioni importanti relative all’apprendimento, alla socialità, alla scuola nel suo complesso, che oggi sfugge all’insegnante nella didattica a distanza e che la può condizionare enormemente?

Chattare nelle piattaforme e-learning, che sono piattaforme social, è la prima cosa che hanno fatto, prima di guardare i compiti o le lezioni postate dai loro prof.

La classe virtuale attiva una nuova relazionalità che va monitorata e gestita, perché il problema della scuola inclusiva non è solo rispettare le tappe del programma, ma soprattutto essere un contenitore per la crescita dei ragazzi. Oggi un contenitore virtuale, digitale che va pensato e inventato, ma soprattutto governato.

Se l’educatore è sempre stato un modulatore delle dinamiche e delle relazioni in classe, lo deve diventare con strumenti digitali anche nella realtà della classe virtuale. Penso ad un momento di incontro della classe gestito da docente di sostegno ed educatore in cui parlare con tutti i ragazzi della vita di classe virtuale, fatta da centinaia di messaggi, fatta di compiti postati, di difficoltà non viste e di comunicazioni non protette. Fatta anche di attivazioni di cooperative learning che tengano dentro proprio i ragazzi che hanno maggiore difficolta ad utilizzare tecnologie digitali.

Non ci sono più amici che si vanno a trovare, ma i compiti si possono fare insieme con piattaforme per webconference o anche semplicemente con videochiamate

Insomma, chi presidia questa parte della scuola, di quella scuola che chiamiamo inclusiva e che rischia di trasformarsi nella scuola di chi è più bravo, più veloce a fare compiti e a postare risposte, lasciando al palo e nell’oscurità chi è in difficoltà?

Piccoli spunti che aprono ad altre riflessioni, tra tutte il rendersi conto che una crisi come questa rischia di fare saltare gli sforzi di inclusione di anni, e di bruciare in un mese o poco più tante fatiche.

Giuliano Niceforo