Antonello Angeli, responsabile scientifico dell’Area Minori e Famiglie della nostra cooperativa, scrive di cosa sta succedendo in questo periodo alla nostra attenzione quando ricorriamo a pratiche e strumenti inconsueti e come la meditazione può venirci in aiuto.
Alcuni giorni fa, durante una supervisione un’educatrice domiciliare, ha condiviso la profonda stanchezza che in questo periodo prova al termine delle riunioni a distanza con i colleghi. “Quando finisco l’incontro in Skype mi sento davvero spossata, vorrei andare a sdraiarmi e dormire, sento una stanchezza fisica come dopo un grande sforzo. Eppure, le riunioni non sono né più lunghe né più difficili o dense rispetto ad altri periodi”.
Eppure siamo abituati a mantenere la concentrazione a lungo durante le riunioni; ciò che cambia, credo, è che non siamo allenati a farlo in modo così focalizzato ed esclusivo. Cioè, non siamo allenati a tenere la nostra attenzione “al guinzaglio”, a non lasciarle corda per vagare di tanto in tanto, anche se solo per qualche frazione di secondo, verso qualcosa di diverso da quello su cui siamo concentrati. Il nostro direzionarla di solito è più morbido, più tollerante verso le sue fughe, e questo dà a noi maggior agio, permette alla nostra mente di allentare un po’ la tensione che si crea durante la concentrazione. Durante gli incontri a distanza, invece, non vogliamo perdere nulla di quello che possiamo raccogliere attraverso le parole e il viso dell’altro proiettato sullo schermo: abbiamo solo quelle due fonti per raccogliere le informazioni che ci permettono di elaborare il nostro ascolto e le nostre riflessioni; non ci possiamo permettere di perdere nulla di ciò che viene detto o che viene espresso dal viso dell’altro, e quindi abbiamo il bisogno di escludere il più possibile tutto il resto delle informazioni che ci arrivano dall’esterno in quel momento, di non permettere alla nostra attenzione di vagare, di perdersi via, anche solo per un istante. E lo facciamo mentre, più o meno consapevolmente, ci rendiamo conto che anche l’altro non può che contare sulle informazioni che gli arrivano da noi attraverso gli stessi canali comunicativi: questo ci tiene inchiodati davanti allo schermo, senza permetterci, ad esempio come facciamo durante una telefonata, di scaricare un po’ di tensione passeggiando per la stanza, facendo altro, o concedendoci qualche smorfia o gesto di stizza in reazione a ciò che il nostro interlocutore sta dicendo, consapevoli di non essere visti.
A restare così focalizzata la nostra attenzione non è abituata; non è addestrata a rispondere così pienamente alla nostra volontà, a restare costantemente sugli stessi oggetti di attenzione a lungo ed escludendo il resto; per sua natura tende maggiormente a saltare da un oggetto all’altro, e noi e la nostra mente ad andarle dietro. E’ quel fenomeno che nel buddismo viene definito “mente-scimmia”; diverse sono le pratiche meditative che tendono a sviluppare questa nostra capacità di focalizzare l’attenzione su un solo oggetto di osservazione (il respiro, un mantra, un’immagine visualizzata, ecc.) escludendo via via il resto, per stabilizzare la nostra mente, “addomesticare la scimmia” e accedere ad uno stato di maggiore finezza nell’osservazione dell’esperienza e, contemporaneamente, di maggior quiete.
Ma lo sforzo che compiamo durante gli incontri a distanza ci parla anche di qualcos’altro: di quanto, cioè, siamo normalmente e fisiologicamente inclini a raccogliere informazioni dai nostri interlocutori attraverso anche altri canali oltre a ciò che vediamo nel loro volto e sentiamo nelle loro parole.
E’ ancora la stessa educatrice che racconta di come sia cambiato in questo periodo il suo modo di sentirsi affianco alla persone di cui si occupa e di quanto anche lì la sua attenzione sia oggi molto più sotto sforzo: “quando entro a casa loro senza la possibilità di abbracciarli, di far sentire la mia vicinanza attraverso un tocco accogliente e di sostegno, mi accorgo, oltre a sentire il dispiacere e la frustrazione che tutto questo mi crea, di quanto sia più concentrata del solito a cercare di carpire dal loro sguardo tutto ciò che di solito mi dicono con l’intero volto, ora coperto per buona parte dalla mascherina, o con la vicinanza dei nostri corpi”.
Se poi l’incontro non è neppure in presenza, i canali di informazione si riducono ancor più drasticamente, soprattutto quelli che normalmente utilizziamo in modo inconsapevole. Normalmente, infatti rielaboriamo sì l’esperienza dell’ascolto dell’altro e della nostra interazione con lui attraverso informazioni di cui siamo chiaramente consapevoli (le parole che sentiamo, alcuni toni della voce, movimenti del viso, cambiamenti di postura di cui ci accorgiamo), ma anche attraverso altre, altrettanto visibili, che raccogliamo senza accorgercene pienamente, e che contribuiscono comunque alle nostre valutazioni e reazioni del momento (magari un gesto di cui non ci accorgiamo, ma che ci colpisce nel profondo e ci cambia l’umore senza che ne comprendiamo il motivo); e poi attraverso altre ancora che arrivano completamente sottotraccia, che il nostro sistema raccoglie e processa, ma di cui non siamo consapevoli, come quelle connesse alle variazioni del campo elettromagnetico nostro e del nostro interlocutore, o degli odori che cambiano col cambiare dello stato biochimico delle diverse emozioni. E’ stato stimato, non ricordo da chi, che in ogni istante arrivi al nostro sistema una quantità di informazioni dell’ordine di alcune migliaia – mi sembra circa 11.000 – e che noi riusciamo ad essere consapevoli solo di una decina scarsa di queste, quantità che attraverso una pratica meditativa costante può essere quasi raddoppiata, pur restando minima.
Credo quindi che lo sforzo di cui parliamo abbia a che fare anche con il tentativo, più o meno consapevole, che il nostro sistema fa per compensare, attraverso i canali informativi rimasti, la raccolta di informazioni che normalmente riceve, anche fuori dalla nostra consapevolezza, da altri canali.
Un’altra educatrice, mamma e coordinatrice di un’equipe educativa, in supervisione da parte sua porta la difficoltà che sta vivendo in questa fase per l’impossibilità di passare da un ruolo all’altro; tra i diversi aspetti che questo comporta, racconta la sua fatica a dividere l’attenzione tra lo svolgimento di un compito lavorativo da casa e le richieste di attenzione della figlia di otto anni. “Non c’è mai possibilità di staccare dai ruoli; quando vado al lavoro di solito lascio per un po’ il mio ruolo di mamma, ora le due cose si mischiano costantemente…”. E mentre racconta questo, ecco la figlia fare un’incursione davanti allo schermo e richiedere la sua attenzione e la sua presenza. Dopo poco l’educatrice torna: “Ecco, le basta poco, ma a me questo interrompermi crea molto fatica, faccio fatica a mantenere la concentrazione sulla riunione e rispondere alle sue richieste”.
Da un lato questo ci dice molto su quanto ricorriamo ai ruoli per semplificarci la vita, ma anche di quanto la nostra attenzione sia normalmente affatica dal provare a tenere dentro elementi diversi contemporaneamente.
È un movimento inverso a quello della focalizzazione, ma la fatica che facciamo in queste situazioni è figlia della stessa inclinazione mentale. Quando vogliamo essere concentrati su quello che facciamo, e contemporaneamente, come abbiamo visto, lasciamo la nostra attenzione libera di vagare di tanto in tanto tra oggetti differenti, e le andiamo dietro, se compare nello spazio della nostra consapevolezza qualcosa che attrae la nostra attenzione in modo potente, attirandoci come una calamita, ecco che viviamo una sorta di confitto interno: vorremmo continuare ad andare verso ciò su cui vorremmo mantenere l’attenzione, ma ci sentiamo tirati verso qualcosa che l’ha attirata nostro malgrado. E ciò che accade all’educatrice è che in quel momento non le può venire in soccorso l’abitudine e la possibilità di scegliere come muoversi in questo conflitto a partire dal ruolo che sta abitando in quel momento, visto in quella situazione ne abita diversi contemporaneamente.
Quindi, è come se il modo che abbiamo appreso di utilizzare abitualmente la nostra attenzione si stia rivelando non adeguato alla complessità di questo nuovo contesto professionale. Stiamo cercando di uscire dall’automatismo di un’attenzione mediamente orientata a concentrarsi in un ambito, ma libera, in quell’ambito e intorno a quell’ambito, di vagare e di portarci a spasso qua e là. Lo facciamo sperimentando maggiormente due diverse e opposte qualità della nostra consapevolezza: da un lato, quella connessa ad un’attenzione focalizzata, in modo determinato, stabile ed esclusivo, su un oggetto ristretto di attenzione; d’altro lato, quella di una consapevolezza aperta e recettiva, orientata, più che ad andare verso, a raccogliere, e accogliere, i vari stimoli che ci arrivano attraverso il richiamo della nostra attenzione, e di farlo senza che questi stimoli entrino in competizione tra loro, che l’uno venga etichettato come distrazione dall’altro, senza che ci fissiamo su nessuno di questi stimoli o cerchiamo di correre dietro a tutti.
Praticare queste due modalità ci mette a dura prova, e ci stanca, perché siamo poco allenati a farlo, e poco allenata è la nostra capacità ad essere flessibili e fluidi nel passare da una modalità all’altra quando ne abbiamo la necessità.
Nelle tradizioni meditative queste due qualità vengono allenate entrambe e attraverso tecniche differenti; nel buddismo, ad esempio, attraverso “samatha” per la concentrazione mentale e “vipassana” per la consapevolezza aperta, da cui deriva una “chiara visione” (è il significato di vipassana) della realtà; risulta di solito difficile accedere ad uno stato di consapevolezza aperta senza aver prima svolto, almeno per un po’, una pratica di concentrazione che ci aiuti a stabilizzare la nostra mente, ad “addomesticarla” a non correre dietro ad ogni stimolo, interno e esterno a noi, fuori dal controllo della nostra volontà.
Antonello Angeli, Responsabile scientifico Area Minori e Famiglie.